Una gita per tutti alle grotte di Labante e al suo presepe

Una gita per tutti alle grotte di Labante e al suo presepe

Tra le colline pedemontane bolognesi c’è una cascata insolita che scorre tra pareti conosciute come grotte di Labante. L’acqua non si scava il letto ma piuttosto se lo costruisce strato dopo strato. Da secoli e millenni l’acqua scorre su un alto palco di roccia che sembra un antico acquedotto e si getta da un becco sospeso nel vuoto, vaporizzandosi in una nuvola che al sole si colora di arcobaleni. Questa roccia si chiama travertino ed è speciale: non si è formata milioni di anni fa ma cresce ancora adesso, se potessimo osservare la scena in un rapidissimo time-lapse la vedremmo formarsi sotto i nostri occhi e accrescersi strato su strato. Il travertino è una colata di calcare che ingloba piante, muschi e legni, sembra un giardino pensile pietrificato. L’acqua trasporta calcite disciolta ma quando scorre, si muove e si rompe in cascate non riesce più a trattenere la parte disciolta e la deposita sulle piante su cui scorre; nei secoli e millenni la colata pietrifica, si consolida e su di esso altra pietra si genera. L’acqua proviene dalla fonte soprastante, presso la chiesa di San Cristoforo, una abbondante sorgente conosciuta come un luogo di culto antichissimo.

La gita alle grotte di Labante è fattibile per tutti: non si tratta di una vera camminata in quanto alla cascata si accede con pochi passi dal piccolo parcheggio, ma la grande roccia travertinosa è circondata di prati comodi e puliti dove anche i bambini più piccoli possono scorrazzare tranquillamente; tutto intorno ci sono campi e boschi di lecci e querce. Dal lato Sud i più avventurosi possono accedere all’interno della grotta attraverso una serie di passaggi che portano al corridoio delle stallagmiti e stallattiti, al laghetto nascosto e alla cavità verde. Sull’altro lato si apre lo splendido laghetto verde, popolato di piante acquatiche e pesci; camminando su uno scivoloso ponticello in legno ci si addentra di nuovo nella grotta. Poco più in là, all’interno di un’altra cavità naturale nel travertino, viene allestito un bel presepe in grotta che sfrutta i naturali anfratti per ambientare le scene.

Al di là delle grotte di Labante le colline bolognesi sono piene di sorprese e di poesia. Montagne che sembrano fatte di terra separano ampie vallate dove i boschi si alternano ai campi e ai pascoli, testimoni quasi immutati di una realtà rurale ancora incredibilmente viva. La stessa passione per la natura e per la qualità del cibo si ritrova nelle locande e nelle trattorie, che sono a mio avviso parte dell’esperienza imprescindibile di queste zone. Tra campi e boschi si muovono brevi sentieri sempre ottimamente segnalati e qui nei dintorni ci sono piccole sorprese ad attenderci; si scoprono così numerosi sentieri delle fate, buche delle fate e tane dell’uomo selvatico: una interessante risorsa di informazioni è il sito del Castel d’Aiano Trekking, da consultare.


Magie del noce, della noce e del nocino

Una gita in Appennino Bolognese dovrebbe sempre chiudersi con una pausa all’osteria: qui, più di ogni altro posto che conosco, gentilezza e accoglienza sono ingredienti sempre presenti non meno di buoni sapori e ottimo vino.
Alla fine arriva puntuale la bottiglia del nocino, un liquore nero, denso e profumato.
Il nocino, naturalmente, è fatto con le noci; la storia del noce è affascinante e vale la pena di raccontarla ai bambini anche se ha un accento un po’ sinistro.
Dice una antica leggenda che la dea Ecate (o Artemide, o Diana), divinità della notte, della luna e spesso associata alle streghe e alle loro scorribande notturne, privilegiasse il noce per fortificare malefici e organizzare incontri notturni.
Le foglie del noce producono sostanze protettive inibenti la crescita di altre piante e così gli spazi vuoti che si formano sotto l’albero fecero pensare che quell’erba fosse frequentemente calpestata da misteriose presenze notturne; il noce mantenne un alone leggendario e sinistro, c’era chi diceva che addormentarsi sotto un noce facesse venire il mal di testa e che tutte le piante e animali che vi sostassero sotto ne fossero in qualche modo avvelenati.
Era ben noto ovunque il Noce di Benevento, un antico albero sotto le cui fronde si ritrovano a festeggiare le streghe provenienti dai luoghi più lontani; una certa Caterina dei Medici, giustiziata a Milano nel 1617, ricordava così la formula magica che l’avrebbe trasportata al celebre albero:
Unguento unguento
portami al noce di Benevento
sopra l’acqua e sopra il vento
e sopra ogni altro maltempo

In Lunigiana, Garfagnana e in Appennino Parmense si ricorda la figura dello strego, che passa le sue notti appollaiato sul ramo di un noce. A differenza di altri esseri paurosi, lo strego è un uomo inconsapevolmente vittima di un incantesimo che di notte lascia la sua casa e va ad appostarsi tra i rami dell’albero. Gli streghi non vogliono il male degli uomini ma si accontentano di passare la notte in quella strana posizione, come uccelli del buio, urlando e cantando, chiamando le persone che passano terrorizzandole. E se dovessero domandare “per chi è la notte?” la risposta per proseguire indisturbati sarà “per te, per me, per tutti quelli che camminano nella notte”.
Con tutte queste sinistre premesse è ovvio che, volendo fare il nocino, sia necessario rispettare un rito complesso.
Per fare il nocino non c’è una ricetta ma un vero e proprio incantesimo, tutt’oggi inconsapevolmente seguito e rispettato da chiunque voglia farlo in casa, me compreso.
Dunque il 24 Giugno, a San Giovanni, quando la luce vince le tenebre schiacciandole nella notte più corta, vengono raccolti i malli, cioè i frutti verdi che contengono le noci. I malli devono essere staccati a mano, senza l’uso di lame di ferro.
I malli vengono lasciati alla rugiada della notte, quindi il giorno seguente vengono spaccati a croce e messi insieme all’acquavite in numero di trentatré (come gli anni di Gesù) per ogni litro. Tutto viene lasciato in infusione per quaranta giorni come per quaranta giorni Gesù si purificò nel deserto. Infine il liquido viene filtrato e messo in botte o nelle bottiglie grandi fino al giorno di Ognissanti, la notte di Halloween, quando il buio inizia a vincere sulla luce del giorno. Infine l’imbottigliamento che avviene la vigilia di Natale.
Questa sorta di magico rito trasforma i frutti del malefico albero in un buonissimo liquore, un tempo considerato anche una medicina per mille mali.
La tradizione del nocino viene da lontano nel tempo e nello spazio: antiche cronache romane raccontano di come i Pitti, un selvaggio popolo che abitava le isole britanniche prima ancora dell’arrivo dei Celti, si radunassero nella notte di mezza estate e bevessero da uno stesso calice uno scuro liquore di noce. Molto probabilmente questa antica tradizione passò ai Celti, che la portarono di villaggio in villaggio fino alle nostre montagne.

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