Fate, draghi e templi intorno al Parco Faunistico del Monte Amiata

Fate, draghi e templi intorno al Parco Faunistico del Monte Amiata

Se vi trovaste a guidare nella Maremma Amiatina potreste credere che la strada che state percorrendo non finirà mai, serpeggerà eternamente tra colline e vallate, sempre immersa nel fitto della intricata macchia mediterranea. La vostra percezione della distanza infinita si scontra con tutto ciò che conoscete come reale, le distanze indicate dai cartelli e i valori del vostro navigatore. Questa è magia, una delle tante che questa terra ancora selvaggia sa regalare.
Tra questi lunghi crinali degradanti dal Monte Amiata si nascondono, per chi le sa trovare, storie antiche e affascinati e luoghi di campagna autentica.
Qui i sentieri sono selvatici e bellissimi, anche se non sempre ben tenuti e segnalati. In Maremma quasi tutto è a libero accesso e niente è mai troppo affollato.
L’altra faccia della medaglia è che la gestione dei beni turistici a volte scarseggia: la macchia e il pascolo si riprendono velocemente gli spazi che gli erano stati sottratti e la minaccia di nuovi e inquietanti progetti di sviluppo è spesso nell’aria.

Dal Parco Faunistico al Monte Labbro
Il sentiero che racconto parte dal Parco Faunistico dell’Amiata, nei pressi di Roccalbegna, alle pendici meridionali dell’Amiata.
Ancora qualche anno fa qui si portavano i bambini per incontri entusiasmanti con mufloni e capre di Montecristo, daini e cervi, per concludere con l’affascinante percorso dell’altana dei lupi; non si capiva se i lupi si nascondessero davvero nella grande boscaglia recintata ma non importava: il percorso tra alte staccionate tipo Jurassic Park e l’enorme altana panoramica finale erano una esperienza sufficientemente emozionante. Oggi ritrovo un luogo inselvatichito, un bel branco di cervi vive in totale autonomia ma buona parte degli animali non ci sono più, e l’altana dei lupi è collassata da alcuni anni e in attesa di ricostruzione.
Dal parco parte un panoramico sentiero che, attraversata l’area degli animali, si inoltra in boschetti di lecci e nella profumata macchia mediterranea salendo lentamente verso la cima del Monte Labbro.
Il tracciato è sempre ben evidente, anche perché è circondato dalla fitta macchia dove solo un cinghiale potrebbe infilarsi, difficile sbagliare strada; segni biancorossi e paletti ricordano comunque il giusto percorso. Il sentiero non presenta difficoltà ed è ben tenuto; data la quota d’inverno può nevicare, mentre in estate le zone più esposte e panoramiche potrebbero essere fastidiosamente calde, per quanto queste cime esposte sono sempre ventilate.
Arrivati al crinale, dove di solito pascola un gruppo di asini amiatini dal caratteristico manto crociato, si intravede la cima del Monte Labbro, con la sua torre in vetta: non fatevi spaventare dall’anticima di fronte a voi, non la risalirete ma l’aggirerete sulla sinistra. Un’ultima salita e siete in cima, dopo circa un’ora e mezza di cammino a velocità bambino. Il ritorno si può anche effettuare per un sentiero molto più veloce (che non ho fatto).

La strana storia del Monte Labbro
Davide Lazzaretti era un umile barrocciaio figlio di contadini nato ad Arcidosso nell’ottocento. Nel 1868, in un’Italia appena unita, il contadino dell’Amiata ha una visione: la sua venuta al mondo è l’inizio di una nuova era, la sua missione è ripristinare il diritto e la giustizia, iniziando con il rifiuto di tutto il rito Cattolico e della gerarchia ecclesiastica.
In breve intorno a Lazzaretti si creò una comunità di seguaci uniti in quello che ormai era un movimento religioso e sociale a tutti gli effetti, i Giurisdavidici.
I Giurisdavidici elessero il Monte Labbro a loro centro di culto: qui costruirono una torre, ben visibile anche da lontanissimo, un grande alloggio, un tempio ricavato in una grotta che era stato sede di culti misteriosi da millenni.
Presto il successo dei Giurisdavidici iniziò a spaventare sia il giovane Stato Italiano che la Chiesa: durante una pacifica processione un gruppo di carabinieri sparò sul gruppo, uccidendo Davide Lazzaretti e tre suoi compagni, e ferendone altri.
Il movimento ufficialmente si sciolse ma alcuni seguaci hanno continuato a mantenere vivo sia il ricordo che questo luogo.
Oggi, al di là della storia, la cima del Monte Labbro resta un posto misterioso e affascinante, un’esperienza emozionante per i bambini.
Sulla cima quasi piatta si può correre sul prato e arrampicare sulle roccette; si può esplorare il santuario nella profonda grotta e salire sulla cima tronca della torre, dalla quale la vista è a 360 gradi.
Il Monte Labbro ha senza dubbio una atmosfera speciale se, negli anni ottanta, un gruppo di monaci buddisti del Tibet vi trovarono rifugio alle persecuzioni cinesi, costruendo un monastero e un centro culturale molto bello, il Merigar, senza dubbio da visitare, non fosse altro per vivere per alcune ore in una dimensione da viaggio in terre lontane.

Fate e draghi: storie magiche di Santa Fiora
Una vecchia storia racconta che un giorno di tanto tempo fa le donne di Santa Fiora, mentre erano intente a infornare pane e focacce, videro arrivare una donna mai vista prima, che teneva per mano la sua figlioletta. La donna, senza dire una parola, iniziò anche lei a fare il pane, e fu il più buon pane mai sentito a Santa Fiora. Nei giorni seguenti le donne del paese impararono a conoscere quella strana donna, che seppero chiamarsi Petorsola, e da lei appresero mille segreti dell’arte panettiera, ma c’era una cosa che proprio non capivano: la misteriosa signora non diceva mai una parola, mai un suono, silenzio assoluto. La cosa le indisponeva non poco e un giorno decisero di costringerla a parlare con un cinico stratagemma: avrebbero fatto finta di gettare la figlioletta nel forno.
Le sciocche misero in atto il loro piano e la donna, effettivamente, parlò.
Prese per mano la figlioletta piangente e disse parole che rimasero impresse per sempre nella memoria di queste terre: “questa è una cosa che non c’è mai vista fare, la figlia di una fata voler infornare”.
Le donne capirono troppo tardi che quella misteriosa donna era una fata: lei se ne tornò nel suo castello, che si trasformò in una sinistra torre di roccia, e nei giorni successivi gatti mammoni furono avvistati per tutto il paese e nessuno aveva più il coraggio di uscire la notte.
Santa Fiora è un bellissimo paese a soli venti minuti di auto dal Parco Faunistico.
Vale la pena passare un po’ di tempo nella sua famosa peschiera: una grande vasca di acque cristalline, circondata da un bellissimo parco ombroso con ponticelli e ruscelletti artificiali. A lato della peschiera sorge la chiesa della Madonna della Neve il cui pavimento, in parte sostituito di recente con lastre trasparenti, è costruito sopra le acque della fonte da cui nasce il fiume Fiora.
Poco lontano dal paese c’è invece una località conosciuta come Selva: il nome deriva dal fatto che qui, un tempo, esisteva una selva intricata e fittissima, di cui i boschi di oggi devono essere solo un modesto testimone.
Un giorno, alla fine del Quattrocento, un terribile drago iniziò a infestare i pascoli di questa zona: pecore e agnelli trovavano la morte tra le fauci affamate del mostro.
Lo scempio continuò per molto e nessuno era in grado di difendersi dalla bestia, che nessuno aveva mai visto, fino al giorno in cui una giovane pastorella che pascolava il suo gregge in quei luoghi scomparve, divorata dal drago.
Era troppo: il conte Guido Sforza, signore di Santa Fiora, radunati i suoi armigeri partì alla caccia della bestia e, trovatala, la uccise, gli tagliò la testa e la portò nella chiesa del Convento della Santissima Trinità alla Selva: nella sagrestia di questa chiesa è tutt’oggi conservata la testa del mostro, visibile nei mesi di Luglio ed Agosto. La storia e la forma del misterioso cranio ci fanno sospettare che la testa sia appartenuta a un coccodrillo, certamente importato dagli stessi Conti e fors fuggito dalle grandi peschiere tutt’oggi visitabili a Santa Fiora, in un tour piacevole tra laghi artificiali, acque correnti, ponticelli e freschi boschetti.

Turismo sostenibile nella vera campagna
Molte delle attività turistiche di questa zona sono roba da intenditori: non ci sono piscine ne’ SPA ma molte hanno animali e cucinano prodotti della fattoria.
Sono tornato per la quarta volta in un agriturismo vicino Roccalbegna, Capra Matilda: i gestori, Antonio e Sonia, ora aiutati dalla figlia e dal suo compagno americano, hanno una cultura smisurata su specie animali e vegetali autoctone, che pazientemente allevano e coltivano. Le bambine hanno trovato qui il loro parco faunistico tra gli asini amiatini, la cavallina, i buoi maremmani, le capre di Montecristo, i maiali di razza macchiaiola maremmana, le pecore e le galline.
Un’altalena per i piccoli prende ombra dai rami di una quercia di 500 anni, gigantesca, le cui fronde si aprono come un ombrello fino a toccare terra.
La mattina Sonia fa il formaggio e la ricotta, con strumenti che di solito si trovano nei musei della vita contadina, ed è ben felice di far partecipare i bambini.
Alla tavola di Sonia si mangiano prodotti dell’orto e della fattoria e si scoprono sapori che sono esperienze uniche, come gli affettati conservati nell’antica speziatura a base di erbe della macchia, senza il pepe che un tempo era raro e costoso.
Non ultimo, i gestori si occupano per il WWF della gestione della vicina Riserva Naturale di Poggio Ronconi,
La fattoria di Capra Matilda, l’amore e la passione dei suoi gestori, è una attrazione turistica formativa e divertente che permette di immergersi nella campagna maremmana, senz’altro la più autentica e intatta di tutta la Toscana.

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